La responsabilità sanitaria

Si è ritenuto di trattare il tema in questione, sebbene la natura dell’argomento evochi un taglio più giuridico riguardo ai destinatari, con l’auspicio di poter contemperare sufficientemente interesse medico e giuridico su una questione divenuta emotivamente così “calda” per la classe medica.

Fatta questa doverosa introduzione, si sottolinea come sia impossibile addentrarsi in questo tema senza prendere le mosse dalla obbligata premessa che le attività medico-chirurgiche rientrano tra le professioni intellettuali di cui all’art.2229 c.c. ma, in quanto professioni sanitarie principali direttamente espresse alla salvaguardia della salute e della vita, esse si contraddistinguono da ogni altra per peculiarità sostanziali correlate alla loro finalità.

Infatti è proprio per la finalità rapportata a beni inestimabili, che queste professioni sono soggette a vigilanza, non solo da parte dall’Ordine professionale, ma pure dagli Organi sanitari dello Stato con obbligo per l’utente di servirsene in maniera esclusiva.

Di conseguenza su queste attività, più che su ogni altra intellettuale, si è da sempre appuntata l’attenzione del legislatore, con la promulgazione di un corpo di leggi che ne regolano già la formazione universitaria e, seppur per taluni specifici aspetti, persino le procedure tecniche di esercizio della stessa attività, a parte le leggi comuni previste dai Codici nonchè le regole di comportamento dettate dal “Codice Deontologico”, vero e proprio “regolamento interno” di queste professioni.

La violazione di detti doveri legalmente dovuti, integra gli estremi della responsabilità professionale, cioè l’obbligo di rispondere legalmente di qualsiasi inadempienza. Essa è disciplinare, quando la violazione concerne le norme del Codice deontologico, ovvero le disposizioni che regolano il pubblico impiego o la Convenzione con il S.S.N.; dolosa con gravità di sanzioni commisurate alla posizione giuridica del medico e/o dell’odontoiatra (esercente di un servizio di pubblica necessità, incaricato di pubblico servizio o pubblico ufficiale), nella violazione del segreto professionale o d’ufficio, nell’omissione di soccorso o nell’omissione o ritardo di atti di ufficio, nel falso ideologico in certificati, nell’omissione di referto o denuncia.

La responsabilità per colpa, sorge ogni qual volta vi sia stata violazione del dovere di operare nell’esclusivo interesse del paziente attuando un comportamento professionale improntato alla diligenza del buon padre di famiglia e con l’ineludibile obbligo di costante informativa e di acquisizione del consenso su quanto è oggetto di trattamento.

E’ chiaro che se l’esercente viene meno ai propri obblighi di cura ed assistenza, nascenti dal rapporto che ha costituito i paziente, deve risponderne se, per uno degli elementi integranti la colpa, ha determinato un danno alla persona, nei termini previsti dagli artt.590 e589 del c.p., e degli artt.2236 e1218 del c.c. quando l’attività rientra nel cosiddetto “rapporto contrattuale”, forma questa divenuta in assoluto ormai la più ricorrente anche nell’esercizio professionale in regime pubblico e convenzionale, a seguito della pronuncia della Suprema Corte che ha ancorato i termini dell’accordo medico-paziente oltre che alla scelta diretta anche al cosiddetto “contatto sociale”.

Va ricordato che, a parte la colpa professionale correlata all’errore in diagnosi prognosi e cura, in questi ultimi decenni si è aggiunta in capo al medico un’ulteriore insidia: con l’utilizzo, a fini diagnostici e curativi, di farmaci e strumentari sempre più sofisticati ma fonti di rischio, non è più neppure eccezionale la responsabilità per danni cagionati per attività, definite pericolose per loro intrinseca natura o peri mezzi adoperati, un tempo relegata alle sole attività radiologiche.

Già da queste brevi note traspare come attualmente gli esercenti le professioni sanitarie possano trovarsi coinvolti in contenziosi giudiziari, più che spesso a spinta speculativa, i quali però perle proporzioni assunte sono divenute talmente allarmanti da ingenerare nella generalità della classe medica uno stato continuo di stressante apprensione mista ad angoscia.

Quali le cause? In proposito va notato come in precedenza, quando la medicina era per molti aspetti materia ancora empirica e la correttezza della diagnosi era espressione il più delle volte dell’esperienza e dell’intuito del medico, nel caso di insuccesso professionale era largamente applicato il principio dell'”irresponsabilità degli errori”, con il limite della “negligenza inescusabile”. Principio, che tuttavia in proseguio è risultato via via vanificato dal progredire degli ausili tecnici ormai sempre più capaci di esplorare ogni e qualsiasi recesso del corpo umano e di programmare il trattamento più idoneo.

Inoltre, proprio con la “presa di coscienza da parte del pubblico” di detti progressi, si è dovuto assistere ad una vera e propria “inversione di tendenza” dell’atteggiamento verso il medico, caratterizzato da un “rapporto ambivalente” di ammirazione verso la medicina ma di riserva per i suoi operatori, a cui si vorrebbe addebitare la responsabilità di qualsiasi insuccesso.

Va notato come a detto mutato atteggiamento abbia contribuito pure il fatto che la società moderna non è più quella prevalentemente paesana ed agricola d’un tempo: i cittadini hanno acquisito precisa coscienza dei propri diritti e degli altrui doveri e con l’innalzamento del livello culturale medio, l’antico rapporto medico-paziente, improntato ad una confidente ed ammirata dedizione, estesa pure ai familiari, non ha più retto ed il nuovo rapporto ambivalente ha lasciato sempre meno spazio alla antica discrezionalità del curante ed agli errori, veri e supposti, di chi viene ormai visto come un addetto ben pagato di un servizio di interesse pubblico.

Alla instaurazione di questo nuovo clima, certamente hanno contribuito non poco certi mezzi di informazione che, nel mentre hanno enfatizzato a dismisura, e generalizzato del tutto incautamente i successi dell’arte medica come quasi routinari nelle mani di luminari, dall’altra hanno trascurato di evidenziare a chiare lettere che resta pur sempre attuale l’antico aforisma secondo cui esistono malati prima che malattie, con il risultato che l’attesa del paziente, e dei suoi stretti congiunti, è cresciuta a dismisura, tramutandosi in “pretesa” di successo in ogni caso.

Tanto, trascurando come ancor oggi, nonostante la ricchezza di ausili tecnici, spesso risulta ancora affatto agevole pervenire ad una definizione diagnostica compiuta o, per converso, ad un trattamento sicuramente efficace, proprio perchè i malati non sono plasmati con lo stesso stampo, come dimostrato sempre più dalle ricerche genetiche.

Per di più, paradossalmente, molti trattamenti, sia diagnostici che curativi, seppur aggravati da un alto grado di rischio e anche se in determinati casi non poco utili o non necessari, vengono pretesi proprio dagli stessi pazienti a causa della scriteriata “ipermedicalizzazione” indotta da certi mezzi di informazione, pretese queste a cui talora il medico si mostra acquiscente per prudenza.

Sicchè il rapporto che il pubblico intrattiene ora con il medico, non solo è mutato emotivamente, ma addirittura appare ribaltato pure da un punto di vista tecnico, il che spiega l’asprezza dei commenti, o peggio le reazioni inconsulte, ogni qual volta l’attesa di salute e di vita migliore non consegue alla prestazione o, peggio, quando al trattamento segue un effetto dannoso, reale o presunto che sia.

dal che pure una spiegazione del perchè il problema della responsabilità professionale “da colpa” abbia assunto proporzioni allarmanti e sia divenuto scottante ed assillante in capo alla classe sanitaria, che si ritrova sempre più trascinata in contenziosi giudiziari e quotidianamente alla ribalta della cronaca cittadina e nazionale per episodi di vera o presunta “malasanità” spacciati con dovizie di particolari tecnici, che poi, magari quando non reggono al rigore valutativo degli esperti, hanno già realizzato egualmente il danno all’immagine ed alla serenità del professionista.

Il problema è divenuto talmente pervasivo in ambito medico-legale, da rappresentare una sorta di subspecialità della disciplina, la cosiddetta “medicina legale della responsabilità medica”, considerato che il giudizio del medico “sub specie juris” deve rispondere a criteri di assoluto rigore metodologico, medico e giuridico, resistente all’attacco impietoso delle parti contrapposte.

Va detto ancora che all’evoluzione negativa di tali rapporti con la società, corrisponde una giurisprudenza caratterizzata da una linea di crescente severità, che potrebbe affondare le sue radici nell’accennato perverso coinvolgimento della coscienza pubblica.

E’ vero, infatti, che il giudice si colloca in una posizione asettica ed equidistante tra le parti in conflitto, ma è pur vero che egli, quale membro della comunità, potrebbe, in ipotesi, introitare inconsapevolmente i sentimenti collettivi per una problematica con talvolta connotati, seppur sfumati, dell’allarme sociale.

Allarme sociale tuttavia del tutto ingiustificato dal momento che negli ultimi decenni, in stretto nesso con l’arricchimento culturale degli operatori medici, i trattamenti di cura e prevenzione delle patologie hanno influito addirittura sulla durata stessa della vita media delle popolazioni.

L’altra faccia del progresso è rappresentata dalla circostanza che la maggiore efficacia dei trattamenti medici è ottenibile attraverso tecniche invasive e chirurgiche o tramite l’uso di farmaci ad alto potenziale di effetti collaterali, non sempre neutralizzabili nel singolo caso.

L’attuale orientamento giurisprudenziale, ma anche dottrinale, di estremo rigore volto alla massima intransigente tutela del paziente, esprime comunque l’abbandono dell’orientamento privilegiato precedente, che il c.c. aveva recepito, seppur con prudenza, all’art.2236, forse poi talora applicato in maniera troppo morbida perchè un tempo gravato dalla millenaria accettazione dell’ineluttabilità del carattere letifero della malattia grave.

Sicchè, tirando le somme, parrebbe che le attuali difficoltà conflittuali medico-paziente rappresentino anche lo scotto che la medicina, ringagliardita dai suoi progressi e dai suoi successi, deve pagare alla società, la quale troppo spesso dimostra di conoscere le innovazioni ma non i perduranti limiti dell’esercizio professionale.

Indice altresì della mutata coscienza dell’utenza nonchè della sempre più limitata discrezionalità accordata agli operatori della sanità è la vera e propria criminalizzazione in occasione di mancata o incompleta acquisizione del consenso all’atto medico, divenuto fattore sempre più ricorrente di contenzioso, un tempo solo argomento accademico dei medici legali ma negletto dalla gran massa degli operatori.

Ora, a causa della sua intensità, il problema è balzato all’attenzione preoccupata di tutti i medici, sempre più allarmati ed angosciati, e perciò sempre più alla ricerca di suggerimenti che possano affrancarli da quest’altra minaccia incombente di coinvolgimenti giudiziari.

Va detto che l’ineludibilità di questo dovere nasce dalle stesse basi giuridiche della liceità del trattamento medico-chirurgico, quale desumibile dal vigente ordinamento giuridico italiano. In effetti, più che da norme specifiche, del tutto lacunose, dottrina e giurisprudenza hanno dovuto ricavare le basi della stessa liceità dell’atto medico per analogia del sistema delle “cause di giustificazione”, quali l’adeguatezza sociale dell’attività; il consenso dell’avente diritto; lo stato di necessità; a seconda dei casi, l’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere.

In sostanza in capo al medico vige in generale il diritto-dovere di curare, ma detta potestà diviene operativa e legittima nel singolo caso solo quando asseverata dal consenso della persona da trattare medicalmente, con la sola eccezione del paziente non in grado di consentire nel caso di urgenza estrema d’intervento.

Ciò in quanto la persona umana è tutelata nella sua libertà dal precetto dell’art.610 del c.p. e dall’art.13 della carta costituzionale, la quale nel mentre sancisce il diritto del cittadino alle cure, nel contempo vieta i trattamenti sanitari obbligatori se non per i casi previsti dalla legge.

Se sono questi i presupposti legali, il consenso potrà vantare completi i requisiti della validità solo quando esso rappresenta l’effetto di una informazione personale, manifesta, completa, recettizia, nel senso cioè che il malato deve essersi reso effettivamente conto della natura del trattamento proposto, nonchè degli eventuali rischi a cui viene esposto.

Atteso che la centralità dell’ammalato in questo rapporto è fuori discussione sia sul piano legale che su quello morale, sorgono infatti non poche difficoltà pure sulla procedura ed i termini dell’informazione, nonchè sulla formazione stessa del consenso, del quale si pretende l’assoluta mancanza di vizi formali e sostanziali.

Ciò comporta che nei casi gravi, il medico si avvalga di regola della forma scritta, che l’atto venga stilato in maniera facilmente recepibile con l’esclusione di termini troppo tecnici ed astrusi o di mera elencazione di rischi teorici.

Se quindi l’atto medico rischioso manca del consenso, o se questo è stato acquisito con una incompleta informazione, quanto si dovesse verificare di dannoso al paziente, indipendentemente dalla diligenza posta in essere dall’operatore, è ingiustificato e ricade in campo a quest’ultimo come espressione di atto il cui esercizio non era legittimato, integrando, sul piano penale, il delitto di lesione personale dolosa, o peggio, di omicidio preterintenzionale (vedasi caso Massimo di Firenze).

Ulteriori problemi sorgono per il dissenso opposto dal paziente, per motivi religiosi o altro, in occasione di urgenze e i emergenze: al riguardo, si è detto tutto, ed il contrario di tutto; pare comunque resistere il principio secondo cui, allorquando il paziente non sia più nelle condizioni di decidere, in analogia alla procedura adottata in costanza di sciopero della fame dei reclusi, il medico possa intervenire nella presunzione che il paziente, posto dinnanzi all’evento ormai incombente della morte, avrebbe potuto revocare la precedente determinazione scegliendo di vivere, similmente alla generalità degli individui. Viceversa sembra pacifico che la volontà dei parenti non abbia valenza determinativa, salvo il caso del paziente minore e sempre che la volontà parenterale non risulti lesiva per gli interessi del minore protetto.

Va precisato comunque che su questi punti non è affatto agevole esprimere opinioni, anche perchè l’Italia, a differenza di altri Stati, come ad esempio il Portogallo, non si è ancora dotata di una legislazione idonea a garantire l’attività medica sotto il profilo della regolarità della condotta professionale. E come sempre, in carenza di regole legali certe, tocca alla giurisprudenza l’arduo compito di supplenza, connotato per il libero orientamento dei giudici.

Come reagisce il medico a fronte di tanti, veramente troppi, rischi incertezze, angosce?

Talora in maniera consapevole, talaltra inconsapevole, egli finisce col trincerarsi in procedure definite di “medicina difensiva”, cioè comportamenti che possano preservarlo da inconvenienti giudiziari, quali una quantità di indagini di supporto, spesso non necessarie alla cura della patologia, nonchè un’attenzione dell’interventismo diagnostico e chirurgico.

Risalta netto come detta situazione di reciproca ipersensibilità, non può sortire l’effetto di una migliore sanità, ma può solo esprimere una “cronica piaga” che fa, e farà, soffrire medicina e società.

A questo punto solo norme giuridiche certe potranno regolare una volta per tutte l’esercizio della professione medica.

Norme che potrebbero prevedere, fra l’altro, come preliminare condizione di promovibilità dell’azione giudiziaria, una sorta di indagine istruttoria di tipo arbitrale, affidabile a commissioni mediche operanti nell’ambito degli Ordini professionali, opportunamente integrate da rappresentanti tecnici dei malati con ruolo accusatorio, condotta secondo le procedure in vigore per l’azione disciplinare ed utilizzabile giudizialmente nei casi di conclamata responsabilità.

Potrebbe essere questo anche un mezzo per attenuare i clamori devastanti, l’insicurezza e l’astiosità degli utenti, l’angoscia degli operatori, i comportamenti difensivi dei medici; ma, sia ben chiaro, l’altro irrinunziabile mezzo resta pur sempre quello della massima diligenza sui beni inestimabili che ci vengono affidati, l’unico idoneo per prevenire almeno i danni totalmente inescusabili, quelli che cioè sollevano maggior scalpore.

Ultimo aggiornamento

23 Febbraio 2024, 11:18